“Contro i sentimenti siamo disarmati, poiché esistono e basta – e sfuggono a qualunque censura. Possiamo rimproverarci un gesto, una frase, ma non un sentimento: su di esso non abbiamo alcun potere.” – Milan Kundera, L’identità.
Ci sono giorni in cui i sentimenti ci arrivano addosso come maree: non chiedono permesso, non si presentano con un biglietto da visita. Esistono e basta. E noi, educati a controllare le mani e le parole, tentiamo di mettere il guinzaglio al cuore. Ma il cuore non cammina al passo. Il cuore danza, inciampa, a volte morde. E poi si vergogna.
Quando ci vergogniamo dei nostri sentimenti
Ci vergogniamo dell’amore quando è troppo, come se l’abbondanza fosse sconveniente. Ci vergogniamo della tenerezza che ci incrina la voce, del desiderio che allaga la pelle. Ci vergogniamo della gioia — sì, anche della gioia — perché temiamo che qualcuno ce la conti, ce la misuri, ce la tolga. E ci vergogniamo dell’ombra: dell’invidia che ci brucia lo stomaco, della rabbia che ci fa dire ciò che non vorremmo, della tristezza che ci rende lenti come piombo. Facciamo processi alla nostra umanità e pronunciamo sentenze senza appello: “Non dovrei sentire questo.” Ma ciò che sentiamo è già qui; è successo. Il sentimento non chiede il nostro consenso per nascere, chiede responsabilità per essere abitato.
La vergogna è un vestito stretto cucito con le aspettative altrui. Ci stringe dove dovremmo respirare. Vive delle regole non dette: sii forte, sii brillante, sii impeccabile. La vergogna sussurra: “Se provi questo, non sei degna.” E così impariamo la censura emotiva: sorridere quando sanguiniamo, minimizzare quando trabocchiamo, chiamare “dramma” ciò che è solo bisogno di essere visti. Ma reprimere non equivale a educare. È possibile tenere un fiume in un bicchiere solo finché il bicchiere non si spacca.
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Proviamo un altro verbo: riconoscere
Allora proviamo un altro verbo: riconoscere. Riconoscere non giustifica ogni azione; mette luce sul fatto nudo: “Io sento questo.” È l’atto più semplice e più coraggioso. Dare un nome al sentimento non lo rende sovrano, lo rende conoscibile. E ciò che conosciamo possiamo accompagnarlo. Possiamo dire all’invidia: “Tu mi mostri ciò a cui tengo.” Possiamo dire alla rabbia: “Tu mi indichi un confine ferito.” Possiamo dire alla tristezza: “Tu mi ricordi ciò che ho amato.” In questo dialogo la vergogna perde la sua voce metallica; il cuore ritrova la grammatica.
La maturità non è smettere di sentire: è imparare a scegliere che cosa farne. L’amore troppo grande può imparare a diventare impegno: telefonate che si mantengono, promesse che si nutrono, distanza che si rispetta. La rabbia può diventare linguaggio chiaro: “Questo no, questo mi fa male.” La gelosia può trasformarsi in domanda: “Di cosa ho paura? Quale mia parte chiede rassicurazione?” La tristezza può insegnare il riposo, la cura, il tempo lungo. La gioia – quando le diamo cittadinanza – diventa gratitudine che non teme l’occhio altrui.
Non siamo colpevoli dei nostri sentimenti, ma siamo responsabili dei nostri gesti. È lì che nasce la dignità: nell’intercapedine tra ciò che irrompe e ciò che scegliamo. Dignità è dire: “Sento, quindi esisto. Scelgo, quindi cresco.” Dignità è imparare a stare con l’onda senza travolgere nessuno. Dignità è chiedere scusa per il colpo di mano, non per il cuore che batte.
C’è un altro inganno da sciogliere: confondiamo vulnerabilità con debolezza. La vulnerabilità è una porta socchiusa: lascia entrare aria, e con l’aria entra vita. Non ci rende indifesi; ci rende veri. Quando diciamo “ho paura”, la paura smette di governarci dal buio. Quando diciamo “sono felice”, la felicità si allarga e può essere condivisa. Quando diciamo “sono invidiosa”, l’invidia perde veleno e diventa una freccia puntata verso un desiderio che merita progetto, non punizione.
Non tutto ciò che sentiamo è bello; ma tutto ciò che sentiamo è utile, se lo mettiamo a lavorare dalla parte della nostra crescita. I sentimenti sono messaggeri; la saggezza sta nel leggere la lettera senza bruciare la casa. Si può essere fieri della propria tenerezza, e insieme onesti sulla propria ombra. Si può scegliere l’azione giusta proprio perché si è guardato in faccia l’impulso sbagliato. Questa è l’arte di vivere: non negare il temporale, ma imparare a portare l’ombrello e, quando serve, a ritardare la parola finché non torna possibile la gentilezza.
Di quale verità hai paura?
Se la vergogna bussa, rispondiamole con una domanda semplice: “Di quale verità ho paura?” Poi facciamo spazio. Respirare è un atto politico del corpo: restituisce diritto di cittadinanza a ciò che sentiamo. E con quel respiro, prendiamo in mano l’unica cosa che davvero ci appartiene: la scelta del prossimo gesto. Un messaggio inviato con cura. Un silenzio che protegge. Un confine detto piano. Una carezza data senza debito.
Contro i sentimenti siamo disarmati, è vero. Ma non siamo indifesi. La nostra difesa è la coscienza; la nostra forza, la responsabilità; il nostro cammino, la tenerezza che sappiamo portare anche all’ombra. Perché la vita non ci chiede di essere immacolati: ci chiede di essere interi. E un cuore intero non è quello che non prova “brutto”, è quello che trasforma il brutto in verità, e la verità in bene.







