“Raccontami la verità: mi tormenterà meno della mia immaginazione.” Fontane conosceva il peso delle ombre proiettate dalla mente. La verità, anche quando graffia, ha bordi finiti; l’immaginazione adulta, quando si fa catastrofe, non ha recinti. Da bambini sognavamo in avanti e l’immaginazione diventava rifugio, coperta, trampolino. Da adulti spesso sogniamo all’indietro, con il freno tirato e lo sguardo sul burrone. È la stessa facoltà, ma ha cambiato clima: dal sole dell’attesa al vento freddo della previsione.
Perché accade? Perché crescere significa imparare la topografia della perdita. Il cervello, che è uno strumento di sopravvivenza prima che di poesia, impara presto che anticipare un pericolo può salvarti più spesso che anticipare una gioia. La psicologia la chiama “bias della negatività”: registriamo più a fondo ciò che fa male, e su quel segnale costruiamo mappe. L’immaginazione allora diventa un radar: scandaglia il cielo cercando nuvole, “così non mi sorprenderanno”. Ma il radar, se resta acceso tutta la notte, confonde il rumore con la tempesta e non ci lascia dormire.
L’evoluzione dell’immaginazione
C’è poi l’intolleranza dell’incertezza: da piccoli l’ignoto era vasto, ma protetto da qualcuno che lo nominava per noi. Da grandi l’ignoto porta la nostra firma. L’immaginazione, privata del custode, si mette di guardia. Fa simulazioni continue – la mente è una macchina predittiva – e ogni simulazione seleziona scenari peggiori “per stare pronti”. Nascono così le profezie del disastro: un messaggio non letto diventa rifiuto, un controllo medico diventa sentenza, un silenzio diventa addio.
Entrano in gioco anche il corpo e le sue campane d’allarme. L’amigdala, vigile come una sentinella, suona; la corteccia prefrontale prova a ragionare, ma il tamburo dell’ansia accelera il passo. La ripetizione scolpisce solchi: ruminare addestra il sistema nervoso a tornare sempre lì. La nostra immaginazione, oggi, riceve una dieta di allarmi: notifiche, breaking news, paragoni, performance. Nutrita così, non costruisce mondi; costruisce gabbie.
L’immaginazione catastrofica
C’è una ragione più intima, che non dobbiamo vergognarci di dire: quando ci hanno delusi davvero, la mente promette che “non accadrà più”. E come paga quella promessa? Con un controllo totale che non possediamo. L’immaginazione catastrofica è la nostra negoziazione con la paura: “se prevedo tutto, soffrirò meno”. Ma è un patto ingiusto. Si paga in anticipo interessi altissimi su dolori che forse non verranno mai.
Eppure la stessa facoltà che ci spaventa può ancora salvarci. La verità nuda, come dice Fontane, è un pavimento. Toccandolo, smettiamo di precipitare. Psicologicamente, nominare ciò che temiamo riduce la ruminazione: sposta l’attività cerebrale da circuiti emotivi reattivi a reti più regolative. Mettere parole esatte – non slogan, non ipotesi – dà alla mente un contorno. La verità non guarisce tutto, ma interrompe il loop.
Un rifugio
Prendiamo ad esempio il magnifico personaggio di Anna Shirley Cutbert, nata dalla penna idillica di Lucy Maud Montgomery, dove l’immaginazione non viene utilizzata certo per romanticizzare l’infanzia, ma per ricordare che può invece essere disciplina gentile. Possiamo allenarla: non a negare il rischio, ma a generare anche esiti plausibili che non siano la fine del mondo; a immaginare risposte, non solo rovine; a scrivere il seguito, non solo il crollo. Possiamo chiederle: “Qual è la parte di questa storia che posso davvero toccare? Quale gesto, oggi, sposta anche di poco la traiettoria?”
L’immaginazione da adulti
La mente adulta non deve scegliere tra favola e catastrofe. Può tenere insieme coraggio e realtà: guardare in faccia i fatti, e poi usare l’immaginazione come una mano che apre finestre, non come un dito che indica precipizi. È un lavoro paziente: addestrare l’attenzione, dare tregua al corpo, cambiare dieta alle immagini. Ma è anche un atto di dignità. Perché quando la verità parla, ci chiama per nome; quando l’immaginazione catastrofica urla, ci riduce a numero.
Raccontami la verità – anche se tremo. La verità è breve, la paura è prolissa. E la nostra immaginazione, se ben guidata, può tornare a essere ciò che era all’inizio: non il luogo dove moriamo mille volte, ma il ponte da cui passiamo, vivi, verso ciò che è possibile.






