“ChatGPT, il tuo miglior psicologo”: basta il titolo per sollevare più di un sopracciglio – e non solo tra gli addetti ai lavori. È questo il nome del chatbot lanciato da Filippo Cappiello, full-stack marketer di 28 anni, non psicologo, ma con una fiducia granitica nella capacità dell’intelligenza artificiale di “ascoltare senza giudicare”. Ed è proprio qui che si apre una riflessione doverosa.
L’intervista rilasciata da Cappiello a skuola.net non è aberrante nelle domande, ma nel cortocircuito concettuale che emerge tra il titolo scelto e le precisazioni successive. Da un lato si propone l’idea di “miglior psicologo”, dall’altro si tiene a sottolineare che “un assistente virtuale non può sostituire uno psicologo”. Allora, perché giocare con le parole? Perché suggerire un’illusione di cura per poi dichiarare che non lo è? Non si vuole stroncare un giovane imprenditore, ma non possiamo non porcele alcune domande.
Certo, è vero: le barriere di accesso alla salute mentale sono tante, troppe. Tempi d’attesa lunghi, costi elevati, stigma sociale. E l’idea di un “primo approccio” leggero, non invasivo, come lui stesso dichiara, che può avere un senso, soprattutto se orienta verso un aiuto reale. Ma attenzione: non si può spacciare un algoritmo per terapeuta. Non è solo una questione semantica o di etichetta. È una questione di responsabilità, anche quando si cerca – con tutte le dovute cautele e precisazioni – di tutelarsi eticamente nei confronti di una professione che ha regole, limiti e competenze ben definite.
Il cuore della terapia non è solo il contenuto, è il contenitore: il setting
Il setting terapeutico – quello vero – è uno spazio mentale ed emotivo oltre che fisico. È la cornice protetta dove terapeuta e paziente costruiscono, insieme, una relazione di fiducia. Non è solo lo studio, la poltrona, l’ora precisa. È la presenza umana, l’ascolto attivo, l’empatia autentica, la capacità di modulare il linguaggio e il silenzio. È l’alleanza terapeutica. Tutte dimensioni che un’app, per definizione, non può contenere.
Dire che “l’utente si sente ascoltato senza giudizio” perché l’interazione è testuale, significa ridurre la relazione terapeutica a un monologo riflessivo. Ma uno psicologo non è uno specchio né un dattilografo emotivo. È un professionista che lavora con la complessità del vissuto umano, con i silenzi, con i lapsus, con l’ambivalenza. E soprattutto: non giudica, perché la sospensione del giudizio è parte integrante del metodo clinico, non un’opzione accessoria. Sarebbe interessante chiedere a Cappiello chi ha nutrito il suo “psicologo virtuale”: con quali fonti, quali approcci teorici, quali limiti etici (di cui è a conoscenza ChatGPt)? Perché se è vero che “le parole contano”, lo è ancora di più quando vengono interiorizzate da persone fragili, vulnerabili, in cerca di una guida. E proprio per questo, la sua comunicazione pubblica dovrebbe essere rigorosa, trasparente, priva di ambiguità e clickbait emotivi.
L’intento non è quello di stroncare il marketer, né demonizzare l’innovazione. Ma fare luce su una questione che rischia di diventare una giungla, soprattutto alla luce dei numeri: 10mili utenti che hanno utilizzato questo chatbot non sono pochi. Un tale successo potrebbe facilmente ispirare i falchi del web, pronti a replicare l’idea con meno scrupoli e più furbizia. E allora il vero problema non sono le buone intenzioni di chi sviluppa, ma il vuoto normativo che le circonda – e che finisce per trasformare anche i tentativi più onesti in potenziali mine vaganti.
La vera domanda, alla fine, è questa: vogliamo un futuro in cui la salute mentale venga gestita da chatbot, o ci impegniamo davvero a renderla accessibile, umana, viva? Perché si può iniziare a parlare con un’app, sì. Ma guarire – o anche solo orientarsi – è tutta un’altra storia.